domenica 6 settembre 2020

Percorsi ebraici per le strade di Genova

Percorsi ebraici per le strade di Genova

La giornata della cultura ebraica quest’anno aveva come titolo “percorsi ebraici”, un richiamo significativo sia per riscoprire la presenza della comunità nel tessuto culturale della nostra città, ma credo anche per sottolineare come questo popolo abbia vissuto diverse vicende che lo hanno reso, suo malgrado, un popolo itinerante sempre costretto a percorrere strade diverse.



Ascoltare i racconti di questo popolo, le loro vicissitudini avvenute dopo la distruzione di Gerusalemme, mi rimanda all’idea di nazione sempre pronta a fare i bagagli per andare a trovare una terra ospitale. Accolti e poi traditi più volte, hanno sempre ricominciato accompagnati da quel senso di precarietà, quasi un richiamo per tutta l’umanità

Le prime testimonianze della presenza ebraica a Genova sono riferite a due documenti, uno del 507 e del 511 DC, con  i quali il re ostrogoto Teodorico concede agli ebrei residenti la possibilità di restaurare al loro sinagoga. È significativo il fatto che sia proprio un testo riguardante una sinagoga, proprio perché per un ebreo essa rappresenta una casa, ma al tempo stesso una ferita legata alla lontananza dalla terra di Israele, la terra dei Padri. Orientata verso Gerusalemme, la casa dell’assemblea ebraica è espressione di un anelito, di un desiderio di sahlom dopo tanto vagare, ma al tempo stesso segno di un riferimento al Dio altissimo, alle sue Parole custodite e trasmesse. A seguito della espulsione degli ebrei dalla Spagna, alcuni si rifugiano intorno alla area della zona molo della città. Da questo momento subiscono vicende alterne, sono infatti costretti a indossare una segno distintivo per poi essere espulsi nel 1493. Genova non accoglie i figli di Abramo Isacco e Giacobbe, vissuti come minaccia, visti con sospetto, sono a più riprese costretti e riscrivere i loro percorsi. Dobbiamo attendere la seconda metà del 1600, quando durante la peste, viene realizzato un  porto franco per rivitalizzare economia. Alcuni ebrei raggiungo le sponde genovesi, provenienti da alcune parti del nord Italia. Nel 1660 viene inaugurato il ghetto ebraico tra Via del campo,  Piazzetta Fregolo e Vico Untoria; a vico del campo, detto vico degli ebrei, viene realizzata una sinagoga. 




Nel 1674 smantellato il ghetto gli ebrei si trasferiscono presso piazzetta tessitori accanto chiesa sant’Agostino.

Dalla prima metà 1700 si interrompe vincolo coatto e gli ebrei si trasferiscono presso le Mura di Malapaga verso il mare. Sono per la maggior parte del Piemonte, di Tunisi e di Livorno. Nella zona del molo, vicino alla chiesa di san Marco, viene inaugurata una nuova sinagoga. Della struttura non esistono più tracce ma gli arredi della vecchia Sinagoga sono oggi  custoditi presso quella nuova in via Bertora. La comunità che nel 1700 è composta da rigattieri e commercianti, addetti in particolare alla vendita esclusiva di caffè e  acquavite,  ha  una nuova casa, un luogo per radunarsi. Quando più ebrei si riuniscono in preghiera scende la presenza di Dio; pensate quindi quanto fosse importante per loro potersi ritrovare insieme per guardare verso Gerusalemme, in mezzo agli arredi che in parte ricordano il Tempio, la terra, l’identità. 



Ho avuto più volte occasione di entrare nella piccola sinagoga situata sotto quella maggiore di via Bertora. Accolto dal Rabbino Capo, Giuseppe Momigliano, ho avuto l’occasione di tuffarmi in questo mondo ebraico così vicino e familiare. La struttura della sinagoga  rimanda infatti ad alcuni elementi che erano presenti nel Tempio di Gerusalemme più volte descritto dalla Bibbia. Un primo elemento presente in tutte le sinagoghe: l’Aron HaKodesh (ארון הקודש) l’armadio sacro dove sono custoditi i Sifrei Torah, cioè i rotoli del Pentateuco.

Un parochet ( פרוכת), che significa "tenda" o “protezione”, separa l’armadio sacro dal resto della sinagoga. 

Aprendo l’armadio troviamo iscritti sulle due ante le 10 parole di Dio, i dieci comandamenti, all’interno invece sono custoditi i Sefer torah, cioè i rotoli della Torah; il rotolo centrale è sormontato da una corona che esprime la sovranità di Dio e sottolinea il valore universale della legge del Signore.  

Davanti all’armadio sacro abbiamo la lampada votiva conosciuta con il nome ebraico, ner tamid ( נֵר תָּמִיד ), che di solito è tradotto come "fiamma eterna" o "luce eterna". Ricorda  la menorah del Tempio di Gerusalemme e simboleggia anche la presenza eterna di Dio. 

La תֵּבָה, tevah è invece una struttura fissa e rialzata dalla quale viene guidata la liturgia e da dove vengono lette le porzioni bibliche settimanali cioè: le parashot riferite al pentateuco e l'haftarah, ossia una lettura correlata tratta dai libri della Bibbia ebraica (Tanak). Per leggere il testo sacro viene usato lo Yad, in ebraico יד, letteralmente “mano”, ossia è un puntatore

Troviamo all’interno della piccola sinagoga un lampadario proveniente dalla comunità ebraica di Amsterdam e regalato ai genovesi all’inizio del XVIII secolo. Ad arricchire il luogo sacro sono inoltre presenti due quadri con vari testi di preghiere ebraiche che si ispirano alla fede, unità di Dio e amore di Dio ed ai principi dello Shalom ed Emet ossia pace e verità Questi quadri integrano di fatto le due tavole della legge, che si possono sintetizzare in comandamenti verso Dio e verso il prossimo



Osservando questa piccolo luogo, così gelosamente custodito, pensando alla storia dei nostri fratelli maggiori, non posso altro che concludere pensando al percorso dei percorsi, ossia la vita. Essa ha bisogno di strade da percorrere, ma anche di essere accolta; necessita di un cielo per non rimanere ottusi e senza speranza; di una casa per fare sintesi. Il popolo ebraico, ed in particolare quello genovese, pellegrino per sua natura, ci insegna certamente a ricominciare sempre ma, al tempo stesso a non abbandonare le proprie radici. Questo è possibile solo se un popolo ama riunirsi per un fine e uno scopo, in un percorso che lo supera.

Don Luca Livolsi

domenica 24 maggio 2020

Dalle ceneri al fuoco


La Pentecoste: fine di un percorso ma anche un nuovo inizio 



“Prima catechesi sulla Pentecoste” 

Siamo partiti il mercoledì delle ceneri nel deserto, con le ceneri, e ora siamo di fronte al dono del fuoco, dello Spirito Santo.

Gli apostoli ora parlano molte lingue in mezzo a una folla ed iniziano anche le spine: sono da alcuni presi per ubriachi.

Abbiamo quindi fatto un percorso inverso, dalle ceneri al fuoco. Quasi a Significare che all’uomo, pur riconoscendosi creatura fragile come la cenere, sia data una grande vocazione. Dove sembra esserci il fallimento in realtà c’è la possibilità di divenire fuoco.

Assistiamo a una grande manifestazione: gli apostoli parlano tante lingue: è il dono della libertà, della ricchezza della differenza. Di rivive l’evento della torre di Babele, costruita per raggiunge Dio, segno di superbia omologante: tutti parlavano la stessa lingua. Ma Dio vuole la differenza. Grazie allo Spirito Santo questa differenza umana, simboleggiata dalle lingue, non è più un ostacolo. Dio permette la comprensione se ci si affida allo Spirito Santo.


Infine vediamo un’ultima parola importante che vi ha accompagnato durante la quaresima, e se ci riflettiamo anche in questo periodo di Pasqua caratterizzato del corona virus: deserto.

Il deserto è stato il luogo di inizio della quaresima, e nella Pentecoste vediamo quanto ha fruttato 

DESERTO in ebraico מִדְבָּר (Midbar)! 
Questo termine è molto complesso e si apre a diversi significanti. Il significato primario deriva da una radice aramaica che corrisponde alla radice נ ה ג che si apre al tema del GUIDARE, CONDURRE,  offre l’idea del pascolare il gregge in terre non adatte ad essere coltivate. 
Il Signore riesce a guidarti e a darti un nutrimento dove ci sono delle asperità.

Nel deserto c’è la via: di nuovo emerge l’idea che nulla è impossibile a Dio: come dalle ceneri di arriva sl fuoco fuoco, così il Signore apre una strada nel deserto.

Deserto in ebraico significa: in mezzo alle parole. דבר = parola, מ = in mezzo

il termine “parola” in ebraico si scrive anche come il termine Pascolo.
דֹבֶר (Dovèr) è il LUOGO DEL PASCOLO. 

Nel deserto scopro il silenzio, sono in uno spazio tra le parole: una pausa per ascoltare meglio, per metabolizzare le parole, nutrirmi 

DESERTO מִדְבָּר (Midbar) è scritto esattamente come 
מְדֻבָּר (Medubbar) che vuol dire “Parlato, dentro di noi?”
Cosa risuona nel silenzio della nostra interiorità che ci ricorda il DESERTO מִדְבָּר (Midbar)? 
Il Luogo del risuono intimo e dell’ascolto. Dio si è manifestato a Elia nel suono di una VOCE DI SILENZIO SOTTILE 
קוֹל דְּמָמָה דַקָּה (Kol demamàh dakkàh) nel deserto. 

In ebraico ogni lettera ha un valore numerico, come nelle lettere romane dove ad esempio “V” vale 5, “X” vale 10.
Le lettere quindi si possono sommare ed individuare un valore numerico.

Inoltre è uso nella tradizione ebraica spostare le lettere, anagrammarle, permutare,  per trovare altri significati.


Se permuto le lettere di מִדְבָּר (Midbar), scopro un bel messaggio: דָם רָב (Dam rav) che vuol dire: Tanto sangue, vita, energia e tanta luce. 
Il deserto è quindi il luogo  della re-energizzazione per eccellenza! 

Infine se sommo i valori numerici delle singole lettere che formano la parola “deserto” ottengo il numero 246 per trovare ulteriori spunti di riflessione che come sempre sono infiniti.  

Il valore 246 esprime l’espressione 
זֶה זָהָב טָהוֹר (Zèh zahav tahor), che vuol dire:
QUESTO (È) ORO PURO.
Trovo  una  altra parola che ha lo stesso valore numerico:
קוֹצִים (Kotzim) SPINE. 

E nel deserto trovo le spine da affrontare e certo non mancarono al popolo nel deserto, nella solitudine una persona deve affrontare se stesso e può essere faticoso.
Ma è la via per trovare l’oro!!!!

Buona festa di Pentecoste 

venerdì 15 maggio 2020

Dare una direzione alla vita

Nella vita, tutti passiamo per situazioni che ci fanno soffrire e che non sappiamo come affrontare; tuttavia, non esiste una formula che funzioni ogni volta: dobbiamo accettare che la sofferenza fa parte della vita.



Chi ha una ragione per vivere è in grado di sopportare qualsiasi cosa”.
(Friedrich Nietzsche)
Le lezioni che ci può dare una persona che ha passato tre anni in un campo di concentramento, e ha superato tale esperienza, vanno considerate per vedere la vita da un’altra prospettiva e per motivarci ogni giorno. Ecco alcune lezioni trasmesse  da Viktor Frankl:

L’importanza di scegliere

La differenza tra una persona che sa superare i suoi problemi e affrontare le avversità della vita e un’altra che non ci riesce è che la prima è una persona che prende decisioni, che sceglie di essere in un modo oppure in un altro, nonostante le condizioni in cui è costretta a vivere.

La vita ha senso in qualsiasi circostanza

Il dottor Frankl parla di disperazione come di un’operazione matematica. La disperazione è uguale alla sofferenza senza scopo: se una persona non riesce a dare un senso alla sua sofferenza, si dispererà. Se l’individuo, invece, è in grado di dare un senso alle avversità, può trasformare le sue tragedie in una vittoria, in una forma di superazione.
“L’amore verso se stessi è il punto d’inizio della crescita di colui che ha il coraggio di assumersi la responsabilità della propria esistenza”.
(Viktor Frankl)

Le vostre azioni quotidiane vi portano ad essere la migliore versione di voi stessi 

Questo è un concetto sul quale dobbiamo riflettere ogni giorno per sapere chi siamo e chi vogliamo essere, per diventare la migliore versione di noi stessi, per mostrare la straordinarietà che c’è in ognuno di noi, affinché anche gli altri la vedano e possano apprezzarla.

Pensate per cosa o per chi vale la pena vivere

Tutti abbiamo qualcosa o qualcuno per cui vivere, un motivo che ci permette di andare avanti giorno per giorno, che ci motivi e che dia senso ad ogni secondo della nostra esistenza, ad ogni nostro passo e ad ogni azione. Il modo in cui reagiamo di fronte a condizioni che non si possono cambiare dipende da noi.
Se non abbiamo potere per modificare una situazione, possiamo sempre scegliere l’atteggiamento da assumere davanti a tale circostanza. C’è sempre qualcosa dentro di noi che possiamo cambiare, ovvero il modo in cui ci sentiamo al riguardo; c’è una parte di noi che dipende solo da noi.
Non importa se non ci aspettiamo nulla dalla vita, l’importante è se la vita si aspetta qualcosa da noi. Pensate a cosa apportate alla vita, a cosa la vita si aspetta da voi, perché essa esige e vi mette continuamente alla prova.
Dovete chiedervi cosa potete fare per cambiare la vostra vita, cosa apportate al mondo e poi reagire di conseguenza.

Le avversità e la sofferenza esistono

La negatività come parte della nostra vita esiste e va accettata. C’è una sorta di tensione tra quello che abbiamo raggiunto e quello che non abbiamo ancora ottenuto. Non abbiamo bisogno di vivere senza difficoltà, bensì di essere consapevoli che esse esistono, che fanno parte della vitae che dobbiamo lottare per qualcosa per cui ne valga la pena, che dia un senso a ciò che facciamo.

“Essere chi siamo e diventare chi siamo capaci di essere è l’unico scopo della vita”.
(Robert Louis Stevenson)

Nessuno è indispensabile, ma ognuno è unico

Quando si accetta il fatto che è impossibile sostituire una persona, si manifesta la responsabilità che l’uomo si assume durante la sua esistenza. Un uomo consapevole del fatto che una persona lo sta aspettando o che ha lasciato un lavoro in sospeso si assume le sue responsabilità e conosce il perché e il senso della vita.

Scoprite il senso della vostra vita

L’interesse dell’uomo non è trovare il piacere o evitare il dolore, bensì dare un senso alla vita. Persino quando stiamo male, dobbiamo dare un senso alla nostra sofferenza.
Nessuno può prendere il vostro posto e soffrire per voi, quindi l’unica opportunità che avete è quella di scegliere l’atteggiamento da adottare di fronte alla sofferenza. Tutti sono mossi da una ragione vitale, ma a volte non ne sono consapevoli.




giovedì 14 maggio 2020

Amore libero

Amare nella libertà

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Nel cristianesimo si parla molto di amore, ma a volte sembra che questo amore sia un po’ astratto, avulso dalla realtà. Eppure è necessario amare con quello che siamo, con la nostra sessualità, i desideri, le forti emozioni, con il bisogno che abbiamo di toccare e di stare vicini agli altri.

Noi crediamo che Dio ha creato questi corpi, e ha detto che erano cosa molto buona; Dio si è fatto corpo tra di noi, essere umano come noi; Gesù ci ha donato il sacramento del suo corpo e ha promesso di resuscitare i nostri corpi. E dunque noi dovremmo sentirci a casa nostra nella nostra natura corporea, con le sue passioni, e a nostro agio nel parlare di affettività.

Dio si è incarnato in Gesù Cristo, ma forse noi stiamo ancora imparando a incarnarci nel nostro corpo. Dobbiamo scendere dalle nuvole!
Il mio cuore e la mia carne devono incarnarsi nella persona che sono, nella vita che Dio ha scelto per me, in questa carne e in questo sangue.

Dobbiamo imparare ad amare con quello che siamo, esseri dotati di sessualità e di passioni, a volte un po’ disordinati. Altrimenti non avremo nulla da dire sul Dio che è amore.
Il corpo non è soltanto un bene che possiedo. Il corpo sono io. È il mio essere, quello che ho ricevuto dai miei genitori, che a loro volta l’hanno ricevuto dai loro, e in ultima istanza da Dio. Al punto che quando Gesù dice: “Questo è il mio corpo, offerto per voi”, egli non sta disponendo di un bene: sta consegnando il dono che egli stesso è. Il suo essere è un dono del Padre ed è questo che egli ci lascia.

Le relazioni sessuali sono chiamate a essere una realizzazione di questo dono di sé. Sono qui e mi dono a te, con tutto quello che sono, ora e per sempre. E così l’eucaristia ci aiuta a comprendere che cosa significa per noi essere individui dotati di sessualità, e la nostra sessualità ci aiuta a comprendere l’eucaristia.

Aprirsi all’amore è molto pericoloso. Ci sono buone probabilità di rimanere feriti. L’ultima cena descrive bene il rischio che si corre ad amare. Per questo Gesù è morto: perché ha amato … Ma non aprirsi all’amore è ancor più pericoloso: è un rischio mortale.

Quando amiamo qualcuno profondamente dobbiamo imparare a essere casti. Tutti – celibi, sposati, religiosi – siamo chiamati alla castità … cioè a vivere nella realtà di quel che sono io e di quello che sono realmente le persone che amo … È un’estrema adesione alla realtà … Consiste nel vivere nel mondo reale, nel vedere l’altro così com’è, e me stesso così come sono. Non siamo né divini, né un semplice ammasso di carne. Siamo entrambi figli di Dio. Abbiamo la nostra storia.

Per rimettere i piedi per terra … bisogna imparare ad aprire gli occhi e a vedere i volti di quelli che ci stanno dinanzi … acquisendo la serenità di chi ha smesso di inquietarsi per il passato e per il futuro.

Durante l’ultima cena Gesù ha colto il momento presente. Invece di inquietarsi per quel che Giuda aveva fatto o per l’arrivo dei soldati, ha saputo vivere il presente: prese il pane, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: “Questo è il mio corpo, offerto per voi”. Ogni eucaristia ci immerge in questo “ora” eterno. È in questo momento che posso farmi presente a un’altra persona, sereno e tranquillo alla sua presenza. Ora è il momento in cui posso aprire gli occhi e guardarla. Sono sempre così occupato, impegnato a correre a destra e a sinistra, pensando a quello che succederà dopo, che può capitare che non veda il volto di chi mi sta di fronte, la sua bellezza e le sue ferite, la sua gioia e le sue sofferenze. Dunque la castità comporta l’apertura dei miei occhi!

In secondo luogo, si deve imparare l’arte di stare da soli. Non posso stare bene con gli altri se non riesco ogni tanto a stare solo con me stesso. Nella misura in cui la solitudine mi fa paura avrò la tendenza ad attaccarmi agli altri non perché stia bene con loro, ma come soluzione al mio problema. Vedrò la gente semplicemente come un mezzo per colmare il mio vuoto, la mia terribile solitudine. Dunque non sarò in grado di rallegrarmi con loro per quanto hanno di bene. E quindi, quando si è alla presenza di un’altra persona, bisogna sforzarsi di essere veramente presenti, e quando si è soli imparare ad amare la solitudine. Altrimenti quando si è con gli altri ci si aggrappa a loro fino a soffocarli!

[Bisogna poi] fare in modo che il nostro amore liberi le persone. Ogni amore, che sia quello degli sposati o dei celibi, deve essere liberante … Noi dobbiamo amare le persone in modo che esse siano libere di amare gli altri più di noi.
Questo presuppone che si agisca in modo da non essere al centro della vita degli altri facendone delle persone dipendenti da noi. Bisogna sempre che ci sforziamo di offrire loro altri punti di appoggio, altre consolazioni, di modo che noi diventiamo meno importanti per loro. Così la domanda che uno deve porsi costantemente è: il mio amore rende questa persona più forte, più indipendente, oppure la rende più debole, più dipendente da me?

Imparare ad amare è un’impresa pericolosa. Non sappiamo dove può condurci. La nostra vita ne sarà stravolta. Ci accadrà certamente in certi momenti di essere feriti. Avere un cuore di pietra sarebbe più facile che avere un cuore di carne, ma in questo caso noi saremmo morti! E da morti non potremmo parlare del Dio di vita. Ma come trovare il coraggio di vivere passando attraverso questa morte e resurrezione?

In ogni eucaristia noi facciamo memoria del fatto che Gesù ha versato il suo sangue per il perdono dei peccati. Questo non significa che doveva placare un Dio che era andato in collera. Né significa soltanto che se sbagliamo possiamo andare a confessare i nostri peccati ed essere perdonati. Significa molto di più. Vuol dire che al cuore di tutte le nostre lotte per essere delle persone viventi e amanti, Dio è al nostro fianco. La grazia di Dio è con noi nei momenti di fallimento e di turbamento, per aiutarci a rimetterci in piedi. Così come, la domenica di Pasqua, Dio ha trasformato il venerdì santo in un giorno di benedizione, noi possiamo confidare nel fatto che tutti i nostri sforzi per amare porteranno dei frutti. Dunque, non c’è ragione di aver paura! Possiamo lanciarci in questa avventura verso l’ignoto con fiducia e coraggio.

mercoledì 13 maggio 2020

Sogni contro la realtà ?


Si può certamente dire che i sogni affondano le radici in una zona ancora misteriosa della mente umana, laddove, mutuando dal titolo decisamente agostiniano di un’importante opera di Viktor Frankl – Dio nell’inconscio, non è insensato ipotizzare che sia all’opera Dio,“sorgente inesauribile di speranza… Infinito che soffia dentro e li dilata”:2
Io so che il cuore dei giovani sogna, e sogna in grande, non solo quando siete un po’ brilli, no, sempre sognate in grande, perché (…) voi siete inquieti, cercatori, idealisti”,1 e perché “i sogni sono (…) un donoche Dio semina nei vostri cuori (…) gratuitamente”.2
Forse per questo i sogni non presentano i caratteri della chiarezza e dell’evidenza, anzi appaiono decisamente ambivalenti, abitando le nostre profondità laddove «una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 62,12).




E’ vero, infatti, che essi “tengono il nostro sguardo largo, ci aiutano ad abbracciare l’orizzonte, a coltivare la speranza … Ti svegliano … Sono le stelle più luminose [e] brillanti, (…) quelle che indicano un cammino diverso per l’umanità”;2 ma è altrettanto vero che essi “si devono fare con i piedi per terra”,1 “vanno purificati, messi alla prova”:2  “maturare vuol dire (…) far crescere i sogni e (…) le aspirazioni, non abbassare la guardia e lasciarsi comprare per due soldi, (…) confrontandosi reciprocamente, discutendo”,1 perché “sognare (…) da solo è pericoloso, (…) potrai cadere nel delirio di onnipotenza”.2
Ecco perché Francesco individua due tipi di sogno. Da un lato, i “sogni piccoli, miseri, che si accontentano del meno possibile … I sogni della comodità, i sogni del solo benessere … I sogni della tranquillità, i sogni che addormentano i giovani e [li] faranno morire”2; dall’altro lato, “verisogni (…) del ‘noi’”, “i sogni grandi” che “includono, coinvolgono, sono estroversi, condividono, generano nuova vita”.2
Tra questi ultimi, il vescovo di Roma pensa innanzitutto ai “sogni di libertà”,1 ricordando però che il “poter decidere di sé [come] espressione più alta di libertà”2 è fatto della stessa sostanza dei sogni: “un dono grande (…) che tu devi custodire per farlo crescere, (…) sviluppare [e che] non ammette mezze misure”.2
Infatti, un nodo problematico del rapporto attuale tra i giovani e la Chiesa è costituito dal fatto che “l’idea di scelta che oggi respiriamo è un’idea di libertà senza vincoli, senza impegni e sempre con qualche via di fuga: un – scelgo, però… –[che] ci ferma, (…) non ci lascia sognare, (…), a volte diventa più grande della scelta e la soffoca. È così che la libertà si sgretola e non mantiene più le sue promesse di vita e felicità. E allora concludiamo che anche la libertà è un inganno e che la felicità non esiste”.2
Per questo il vescovo di Roma – quasi supplice – esorta con forza i giovani:
Per favore, non lasciatevi comprare, non lasciatevi sedurre, non lasciatevi schiavizzare dalle colonizzazioni ideologiche che ci mettono idee nella testa … Voi non avete prezzo! Non siete merce all’asta! … Innamoratevi di questa libertà che è quella che offre Gesù”.3
In secondo luogo, Francesco collega strettamente questi sogni di libertà con quello di un amore “per tutta la vita”, individuando nella “libertà dell’amore” la “libertà più grande”.2 Anche qui, infatti, è necessario “imparare a discernere quando c’è l’amore vero e (…) quando c’è il semplice entusiasmo truccato da amore”.2 Anche qui, poi, “bisogna sempre mettere al primo posto l’amore … Bisogna rischiare nell’amore vero … Vendere tutto per comprare questa perla preziosa di altissimo valore … L’amore non tollera mezze misure… Devi mettere tutta la carne al fuoco: così diciamo noi in Argentina … Il compito dell’uomo nell’amore [è] rendere più donna la moglie, o la fidanzata … Il compito della donna nel matrimonio [è] rendere più uomo il marito, o il fidanzato. E’ un lavoro a due, che cresconoinsieme … Per questo l’amore è fedele (…) sincero, aperto, coraggioso … E questa è l’unità, e questo vuol dire “una sola carne”: diventano “uno”, perché uno fa crescere l’altro”.
Mettere tutta la carn eal fuoco”, “essere una carne sola” significa, però, comprendere definitivamente che “il vero amore è appassionato”,4 che “la sessualità, il sesso, è un dono di Dio. Niente tabù … È una passione [che] ti porta a dare la vita per sempre. Sempre. E a darla con il corpo e l’anima … Una sola carne: questa è la grandezza della sessualità. E si deve parlare [e] vivere la sessualità così, in questa dimensione: dell’amore tra uomo e donna per tutta la vita”.4
Certamente, riconosce con sensibilità misericorde Francesco, “le nostre debolezze, le nostre cadute spirituali, ci portano a usare la sessualità al di v fuori di questa strada tanto bella. Ma (…) questa non è la sessualità dell’amore: è la sessualità “cosificata”, staccata dall’amore e usata per divertimento … E’ una degenerazione rispetto al livello dove Dio l’ha posta” –4 non a caso, osserva acutamente Francesco, “il punto più bello della creazione, (…) la sessualità è la più attaccata dalla mondanità, dallo spirito del male”.4
Per questo anche qui è forte l’esortazione del vescovo di Roma:
custodite la vostra dimensione sessuale … E preparatela (…) per inserirla in quell’amore che vi accompagnerà tutta la vita”,4 perché “quando tu vedi un matrimonio, una coppia di un uomo e una donna che vanno avanti nella vita dell’amore, lì c’è l’immagine e la somiglianza di Dio … Tutti e due, insieme, sono immagine e somiglianza di Dio”.2
A questo punto, si domanda giustamente Francesco, “un ideale così, quando si sente vero, quando è maturo, si deve spostare più avanti per altri interessi?”.2 La risposta è chiara: “No, non si deve … Occorre evitare scappatoie”.2 In questo senso deve essere interpretata un’espressione del vescovo di Roma che altrimenti potrebbe apparire discutibile: “se l’amore viene oggi, perché devo aspettare tre, quattro, cinque anni per farlo crescere e per renderlo stabile?”:2
Il nemico più grande dell’amore è la doppia vita – fai finta di non amare, studi, e poi incominci a vivere la doppia vita … Il nemico più grande dell’amore non solo è non lasciarlo crescere adesso, aspettare di finire la carriera, ma è fare la doppia vita, perché se tu incominci ad amare la doppia vita, l’amore si perde”;2 “sono tanti quelli che (…) vedono che finisce l’amore dei loro genitori, che si dissolve l’amore di coppie appena sposate… Facciamo sì che l’amore sia vivo”.5
Molte le indagini sociologiche, indicano uno stretto rapporto tra il dramma della precarietà del lavoro attuale e la precarizzazione dei legami affettivi, tant’è che oramai non si può più sognare l’amore della vita senza sognare un lavoro a tempo indeterminato. Ma anche su tale problematica il vescovo di Roma ha parlato in modo chiaro:
questo è uno dei problemi più acuti e più dolorosi per i giovani, perché (…) la persona che non ha lavoro, si sente senza dignità”:6 “i bambini crescono soli (…) perché c’è (…) il bisogno del lavoro”,7 “il numero dei suicidi giovanili è in aumento, ma (…) la ragione principale di quasi tutti i casi è la mancanza di lavoro … Altri giovani (…) cercano un’alienazione intermedia con le dipendenze [come] via di fuga da questa mancanza di dignità … Altri giovani sul telefonino vedono cose interessanti come progetto di vita: almeno danno un lavoro… Suicidi, dipendenze e uscita verso la guerriglia sono le tre opzioni che i giovani hanno oggi, quando non c’è lavoro”.6
D’altra parte, il “perché” concreto e “la ragione” pratica delle difficoltà di lavorare per essere liberi di amare sono anch’essi messi in luce con decisione da Papa Francesco:
c’è una risistemazione dell’economia mondiale, dove l’economia, che è concreta, lascia il posto alla finanza, che è astratta (…) crudele”, perché “lì si gioca con un immaginario collettivo che (…) è liquido o gassoso … Al suo posto avrebbero dovuto esserci l’uomo e la donna. Oggi questo è il grande peccato contro la dignità della persona: spostarla dal suo posto centrale … Così, con questo spostamento della persona dal centro e col mettere al centro una cosa come la finanza, così “gassosa”, si generano vuoti nel lavoro”.6
Per questo, conclude il vescovo di Roma, “ci vuole coraggio (…) davanti alle resistenze, alle difficoltà, a tutto quello che fa che i nostri sogni siano spenti”;2 per questo, di fronte alla capacità del male di insinuarsi tra le ambivalenze dei nostri sogni di libertà, d’amore e di dignità lavorativa, “c’è bisogno della parola profetica, c’è bisogno di inventiva umana … ci vuole creatività”:6
Non lasciatevi rubare i vostri sogni … Cercate maestri buoni capaci di aiutarvi a comprenderli e a renderli concreti nella gradualitàe nella serenità. Siate a vostra volta maestri nel sogno … Offrite i vostri sogni gratuitamente: nessuno, prendendoli, vi farà impoverire …C’è un ragazzo (…) ventenne, ventiduenne, che incominciò a sognare e a sognare alla grande … Dicevano che era pazzo perché sognava così … Questo giovane, un italiano del XIII secolo, si chiamava Francesco e ha cambiato la storia dell’Italia. Francesco ha rischiato per sognare in grande … Pensiamo: era un giovane come noi. Ma come sognava…! 

Amore: questione di senso e responsabilità

Per Frankl essere-uomo vuol dire essere fondamentalmente orientato verso qualcosa che ci trascende, verso qualcosa che sta al di là e al di sopra di noi, qualcosa che ci attira fortemente. Solo chi crede nella sua «volontà di significato» può costruire una gerarchia di valori tale da assegnare al piacere e alla potenza, all’autoaffermazione e alla soddisfazione dei propri istinti il loro vero posto, che è quello di essere prodotti laterali, effetti di una realizzazione del senso della propria esistenza.
Oggi è un’autentica sfida parlare di ricerca di senso, perché si viene subito riportati alla capacità radicale dell’uomo di scoprire i significati delle singole situazioni di cui è costellata la vita di ogni giorno, di assumere decisioni che corrispondono al suo dover-essere, di scoprire le possibilità che sono racchiuse nella sua irripetibile esistenza.


Se la vita dell’uomo è sempre specifica, in quanto si riferisce a un essere singolo, concreto, individuale, anche il compito non è qualcosa di generale, di valido per tutti e per ognuno, di permanente in ogni tempo, ma varia da uomo a uomo, perché corrisponde all’unicità e all’individualità di ciascuno. Nello stesso tempo, però, il compito varia da situazione a situazione, perché l’unicità delle situazioni porta con sé una caratterizzazione diversa, con esigenze e condizioni proprie, per nulla ripetibili. E quindi l’uomo deve attentamente osservare la situazione in cui si trova, e che non ha alcun riscontro con avvenimenti suoi e di altri già accaduti in precedenza.
Con la voce della coscienza l’uomo è in grado di percepire quale senso si celi in una situazione e di agire conseguentemente con responsabilità. Ciò vuol dire essere interpellati continuamente dalla realtà, dalle situazioni in cui ci si trova e che chiedono una risposta. Ecco perché John F. Kennedy il 20 gennaio 1961, nel discorso di insediamento alla presidenza degli Stati Uniti d’America, ai suoi compatrioti disse: «Non chiedetevi che cosa potrà fare per voi il vostro paese, ma che cosa potrete fare voi per il vostro paese» (cit. in Dallek, 2004, p. 366). E quasi di rimbalzo, Frankl consigliava ai suoi uditori americani: «Dopo aver costruito la Statua della Libertà sulla costa orientale, sarebbe di costruire la statua della responsabilità sulla costa occidentale» (Frankl, 2010, p. 63).
Nella nostra era scientifica il progresso umano è calcolato in dati che possono facilmente essere misurati, introdotti nel computer e analizzati. Eppure, le risposte del computer indicano solo come l’uomo si comporta nella media e in gruppi-campione, mai come dovrebbe comportarsi in situazioni specifiche. «La nostra vita non è regolata ad ogni incrocio da una luce rossa che dice di fermarsi o da una luce verde che dice di andare avanti. Viviamo in un’epoca di luce gialla lampeggiante, che lascia all’individuo il peso della decisione» (Fabry, 1970, p. 80). Vivere, in ultima analisi, significa avere la responsabilità di «rispondere» esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte alle esigenze dell’ora.
I compiti che l’uomo è chiamato a realizzare vanno in una triplice direzione: il lavoro, l’amore e la sofferenza. Se nel lavoro l’uomo può manifestare se stesso dando alla realtà la sua personale impronta, se nell’amore egli può vivere le più forti e intime esperienze, nella sofferenza si manifesta la sua grandezza, perché solo in essa si trova tragicamente messo a confronto con se stesso, con la sua capacità non solo di lavorare e di godere, ma di soffrire.
L’uomo ha il diritto alla vita, al lavoro, alla gioia, alla pace; ma ha anche un fondamentale diritto che nessuno può toglierli, a nessun costo: il diritto di soffrire il proprio dolore, di inondare di senso anche una vita apparentemente distrutta, economicamente infruttuosa. La sofferenza «non rappresenta semplicemente una possibilità qualsiasi, bensì la possibilità di attuare il supremo valore, l’occasione per conferire pienezza al significato più profondo della vita» (Frankl, 2001, p. 190).
Un tale senso riluce nell’atteggiamento che l’uomo prende dinanzi a un destino di dolore, dinanzi alle forze avverse, dinanzi a situazioni irreparabili. Ecco perché l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe II nel 1784 volle che sull’entrata del Policlinico di Vienna fosse riportata la frase latina: Saluti et solatio aegrorum. Chi si fa carico della salute fisica e psichica di un altro è anche chiamato ad aiutarlo a sopportare con accettazione e comprensione le inevitabili sofferenze che la vita gli riserva e a riacquistare non solo la capacità di lavorare e di godere, ma anche quella di soffrire.

martedì 12 maggio 2020

discernimento

Il discernimento è un dono tra i doni dello Spirito santo fatti al credente ma, in via preliminare, non si deve mai dimenticare che il dono per eccellenza, la cosa buona tra le cose buone (cf. Lc 11,13), è lo Spirito santo stesso. Non si confondano dunque i doni con il Dono e si faccia discernimento, si riconosca che in verità lo Spirito è “il dono settiforme” (inno Veni Creator Spiritus), la fonte di tutti i doni. Chiarito questo primum essenziale, occorre chiedersi: come si può definire il discernimento?




Il discernimento è un dono tra i doni dello Spirito santo fatti al credente ma, in via preliminare, non si deve mai dimenticare che il dono per eccellenza, la cosa buona tra le cose buone (cf. Lc 11,13), è lo Spirito santo stesso. Non si confondano dunque i doni con il Dono e si faccia discernimento, si riconosca che in verità lo Spirito è “il dono settiforme” (inno Veni Creator Spiritus), la fonte di tutti i doni. Chiarito questo primum essenziale, occorre chiedersi: come si può definire il discernimento?
Quanto all’etimologia, “discernimento” deriva dal verbo latino discernere, composto di cernere (vedere chiaro, distinguere) preceduto da dis (tra): dunque, discernere significa “vedere chiaro tra”, osservare con molta attenzione, scegliere separando. Il discernimento è un’operazione, un processo di conoscenza, che si attua attraverso un’osservazione vigilante e una sperimentazione attenta, al fine di orientarci nella nostra vita, sempre segnata dai limiti e dalla non conoscenza. Come tale, è un’operazione che compete a ogni uomo e a ogni donna per vivere con consapevolezza, per essere responsabile, per esercitare la sua coscienza. Quando sperimentiamo la fatica della scelta, il dubbio, l’incertezza, oppure cerchiamo un orientamento nella vita quotidiana o nelle grandi decisioni da prendere, noi dobbiamo fare discernimento.
Nel cristiano, poi, radicandosi su questa dimensione prettamente umana, il discernimento si manifesta come sinergia tra il proprio spirito e lo Spirito santo, il Soffio della vita interiore spirituale e della vita comunitaria cristiana: “lo Spirito attesta al nostro spirito” (Rm 8,16)… Il discernimento cristiano non è riducibile a un metodo e a una tecnica di introspezione, di maggiore conoscenza di sé, ma è un itinerario che richiede l’intervento di un dono dello Spirito, di un’azione della grazia. Sì, ascoltare lo Spirito, ascoltare la voce di Dio che parla nel cuore umano, nella creazione e negli eventi della storia, richiede di riconoscere innanzitutto questa voce tra tante voci, nella consapevolezza che la voce di Dio non si impone, non comanda, ma suggerisce e propone, anche con un sottile silenzio (cf. 1Re 19,12).
All’interno della grande tradizione cristiana, una definizione del discernimento molto chiara e sintetica e, nel contempo, articolata, è quella di Giovanni Climaco (metto in evidenza i termini greci, che ci torneranno utili nel prosieguo):

Il discernimento (diákrisis), nei principianti, è una sovraconoscenza (epígnosis) autentica di se stessi; in coloro che sono a metà del cammino, è un senso spirituale che distingue (verbo diakríno) infallibilmente il bene autentico da quello naturale e dal suo contrario; nelle persone spiritualmente mature, è una scienza infusa per divina illuminazione, che è in grado di illuminare con il proprio lume anche ciò che negli altri rimane coperto dalle tenebre. Forse, più in generale, si definisce ed è discernimento (diákrisis) la comprensione sicura della volontà di Dio in ogni tempo, luogo e circostanza, che è presente solo in chi è puro nel cuore, nel corpo e nella parola … Il discernimento (diákrisis) è una coscienza immacolata e una sensibilità pura … Chi possiede il dono del discernimento (diakritikós) fa ritrovare la salute e distrugge la malattia.

E il teologo Giuseppe Angelini fa eco:

Il discernimento può essere definito, in primissima approssimazione, come la qualità dell’animo che consente di riconoscere in ogni circostanza quello che conviene fare; e consente, prima ancora, di scorgere in ogni circostanza che conviene fare qualcosa, che si può e si deve prendere una decisione, che insomma le diverse situazioni in cui ci veniamo via via a trovare ci riguardano, ci interpellano, ci invitano a prendere parte, non ci respingono invece nella situazione troppo comoda (ma anche, sotto altro profilo, troppo scomoda) di coloro che sono sempre e soltanto spettatori.

Proseguendo il ragionamento di questi due autori, possiamo definire il discernimento come quel processo che ogni essere umano deve compiere nel duro mestiere di vivere, nelle diverse situazioni con cui si trova a confrontarsi, per fare una scelta, prendere una decisione, esprimere qui e ora un giudizio con consapevolezza. Il discernimento riguarda veramente ogni essere umano, nel suo specifico hic et nunc, ed è essenziale a ogni cristiano per vedere, conoscere, sentire, giudicare e operare in conformità alla parola di Dio.

Quanto all’etimologia, “discernimento” deriva dal verbo latino discernere, composto di cernere (vedere chiaro, distinguere) preceduto da dis (tra): dunque, discernere significa “vedere chiaro tra”, osservare con molta attenzione, scegliere separando. Il discernimento è un’operazione, un processo di conoscenza, che si attua attraverso un’osservazione vigilante e una sperimentazione attenta, al fine di orientarci nella nostra vita, sempre segnata dai limiti e dalla non conoscenza. Come tale, è un’operazione che compete a ogni uomo e a ogni donna per vivere con consapevolezza, per essere responsabile, per esercitare la sua coscienza. Quando sperimentiamo la fatica della scelta, il dubbio, l’incertezza, oppure cerchiamo un orientamento nella vita quotidiana o nelle grandi decisioni da prendere, noi dobbiamo fare discernimento.
Nel cristiano, poi, radicandosi su questa dimensione prettamente umana, il discernimento si manifesta come sinergia tra il proprio spirito e lo Spirito santo, il Soffio della vita interiore spirituale e della vita comunitaria cristiana: “lo Spirito attesta al nostro spirito” (Rm 8,16)… Il discernimento cristiano non è riducibile a un metodo e a una tecnica di introspezione, di maggiore conoscenza di sé, ma è un itinerario che richiede l’intervento di un dono dello Spirito, di un’azione della grazia. Sì, ascoltare lo Spirito, ascoltare la voce di Dio che parla nel cuore umano, nella creazione e negli eventi della storia, richiede di riconoscere innanzitutto questa voce tra tante voci, nella consapevolezza che la voce di Dio non si impone, non comanda, ma suggerisce e propone, anche con un sottile silenzio (cf. 1Re 19,12).
All’interno della grande tradizione cristiana, una definizione del discernimento molto chiara e sintetica e, nel contempo, articolata, è quella di Giovanni Climaco (metto in evidenza i termini greci, che ci torneranno utili nel prosieguo):

Il discernimento (diákrisis), nei principianti, è una sovraconoscenza (epígnosis) autentica di se stessi; in coloro che sono a metà del cammino, è un senso spirituale che distingue (verbo diakríno) infallibilmente il bene autentico da quello naturale e dal suo contrario; nelle persone spiritualmente mature, è una scienza infusa per divina illuminazione, che è in grado di illuminare con il proprio lume anche ciò che negli altri rimane coperto dalle tenebre. Forse, più in generale, si definisce ed è discernimento (diákrisis) la comprensione sicura della volontà di Dio in ogni tempo, luogo e circostanza, che è presente solo in chi è puro nel cuore, nel corpo e nella parola … Il discernimento (diákrisis) è una coscienza immacolata e una sensibilità pura … Chi possiede il dono del discernimento (diakritikós) fa ritrovare la salute e distrugge la malattia.

E il teologo Giuseppe Angelini fa eco:

Il discernimento può essere definito, in primissima approssimazione, come la qualità dell’animo che consente di riconoscere in ogni circostanza quello che conviene fare; e consente, prima ancora, di scorgere in ogni circostanza che conviene fare qualcosa, che si può e si deve prendere una decisione, che insomma le diverse situazioni in cui ci veniamo via via a trovare ci riguardano, ci interpellano, ci invitano a prendere parte, non ci respingono invece nella situazione troppo comoda (ma anche, sotto altro profilo, troppo scomoda) di coloro che sono sempre e soltanto spettatori.

Proseguendo il ragionamento di questi due autori, possiamo definire il discernimento come quel processo che ogni essere umano deve compiere nel duro mestiere di vivere, nelle diverse situazioni con cui si trova a confrontarsi, per fare una scelta, prendere una decisione, esprimere qui e ora un giudizio con consapevolezza. Il discernimento riguarda veramente ogni essere umano, nel suo specifico hic et nunc, ed è essenziale a ogni cristiano per vedere, conoscere, sentire, giudicare e operare in conformità alla parola di Dio.

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