giovedì 26 marzo 2020

Salvaci ora



Gv 7,1-2.10.25-30
  Cercavano di arrestare Gesù, ma non era ancora giunta la sua ora.

È molto interessante che il Vangelo sia ambientato durante la festa delle capanne    (סֻכּוֹת - sukkot). 
Nella Torà (Levitico, 23, 41-43) infatti troviamo scritto: “E celebrerete questa ricorrenza come festa in onore del Signore per sette giorni all’anno; legge per tutti i tempi, per tutte le vostre generazioni: la festeggerete nel settimo mese. Nelle capanne risiederete per sette giorni; ogni cittadino in Israele risieda nelle capanne, affinché sappiano le vostre generazioni che in capanne ho fatto stare i figli di Israele quando li ho tratti dalla terra d’Egitto”.




Un precetto fondamentale della festa è il lulàv: un fascio di vegetali composto da un ramo di palma, due di salice, tre di mirto e da un cedro che va agitato durante le preghiere. Forte è il significato simbolico del lulàv: 
  1. la palma è senza profumo, ma il suo frutto è saporito; 
  2. il salice non ha né sapore né profumo; 
  3. il mirto ha profumo, ma non sapore ed infine 
  4. il cedro ha sapore e profumo. 
Sono simbolicamente rappresentati tutti i tipi di uomo: tutti insieme sotto la sukkà. 
Secondo un’altra interpretazione simbolica 
  • la palma sarebbe la colonna vertebrale dell’uomo,
  • il salice la bocca, 
  • il mirto l’occhio 
  • ed infine il cedro il cuore. 

L’uomo rende grazie a Dio con tutte le parti del suo essere.
L’uomo è disposto a mettersi al servizio di Dio anche nel momento in cui sente che massima è la potenza che ha raggiunto: ha appena raccolto i frutti del suo raccolto, ma confida nella provvidenza divina e abbandona, anche se solo per pochi giorni, la sua dimora abituale per abitare in una capanna. 
Capanna che è insieme simbolo di protezione, ma anche di pace fra gli uomini. 
“E poni su di noi una sukkà di pace” riecheggiano infatti i testi di numerose preghiere.

”Quando li feci uscire dal paese d’Egitto”.
“Efraim dice: ‘È vero, io mi sono arricchito,
mi sono acquistato dei beni;
però, in tutti i frutti delle mie fatiche
non si troverà nessuna mia iniquità, niente di peccaminoso’.
Ma io sono il Signore, il tuo Dio, fin dal paese d’Egitto;
io ti farò ancora abitare in tende, come nei giorni di solennità”. – Os 12:9,10.
   L’autosufficienza, perfino la buona posizione di cui possiamo godere, non deve farci mai dimenticare che è Dio che ci salva e ci trae da tutti gli Egitto del mondo.
 Abitare temporaneamente fuori dalla nostra casa aiuta il popolo di Israele a imprimere nella mente che dobbiamo affidarci a Dio con fede.
 Lasciare le nostre case per partecipare alla Festa è un simbolo della nostra fede in Dio. Il popolo di Dio deve imparare l’ubbidienza. La Festa è un simbolo della nostra uscita, del nostro Esodo dai sistemi del mondo. Dio ci ha portato fuori da ogni Egitto verso una meravigliosa Terra Promessa.
Durante quindi questa festività del secondo raccolto il popolo di Israele esce dalle case e va a vivere nelle capanne. Dopo la abbondanza dei doni della terra sono chiamati a ricordarsi che sono stati pellegrini, nel deserto e che la terra è un dono. Tra le frasche delle capanne sono invitati a guardare il cielo ed invocare “Osanna”, cioè “Salvaci Ora”.
Un’invocazione di salvezza che parte dal riconoscersi precari, fragili nella tenda che sono il nostro corpo e la vita.
Gesù in questo contesto si mostra Signore della salvezza. Sarà lui ad andare incontro liberamente alla croce, volontariamente, e quella sarà l’ora.
Anche noi oggi diciamo “Osanna -
‎הושיעה נא” prima della consacrazione, perché riconosciamo che quella ora è oramai compiuta.



 Chiedo al Signore di vivere bene la messa di oggi, come un Pellegrino che cerca l salvezza ORA”

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