martedì 21 aprile 2020

Sulla soglia

Di corollario al primo incontro

Amare l’altro come altro





Il conflitto è qualcosa che si verifica nella vita sociale e certamente anche nella vita di coppia. La nostra epoca multiculturale, aperta alle prospettive globali, fa sempre però esperienza del nichilismo distruttivo. Ogni volta che si tratta di accogliere qualcuno nella propria vita, ecco ergersi delle barriere, delle regole per difenderci. Come mai tutta questa paura? 

A me pare che sia normale avere paura e bisogna rendersene conto, ma altro è lasciarsi da questa vincere. C’è in noi un istinto alla conservazione che va al di là della preservazione della sola vita biologica. Noi non siamo solo un insieme ordinato di organi che vive in un habitat determinato. Abbiamo un mondo, se così si può dire, che è nato e si è sviluppato con noi  a partire dal nostro concepimento. Un cosmo di relazioni, esperienze pregresse, emozioni, modalità di stare e vivere. Questo mondo ci da sicurezza e l’incontro con l’altro lo mette in discussione.

Come fare per evitare le tragiche conseguenze di un conflitto che via via può crescere?


Prendiamo le prime mosse dalla considerazione che ognuno di noi vive in un mondo che gli è proprio, vi cioè un mia realtà. Esiste però anche la realtà dell’altro. Per avvicinarmi all’altro devo aprire una soglia davanti alla mia casa, un limes-limen, cioè un luogo, una agorà per affacciarmi da ciò che è di per sé è il mio confine ma che può diventare il sagrato, il cortile dei gentile dove fare l’esperienza della relazione. Uno spazio nuovo, una soglia davanti alla porta.

Una relazione di amore con l’altro necessità allora di una architettura spaziale che non è data per scontata. Occorre quindi fare un passo in più per amare l’altro, con chi non proviene della mia famiglia, ma appartiene  a un’altra tradizione e cultura. Questo spazio è la nostra identità relazionale.

La formazione della identità relazionale è una questione decisiva per compiere uno sviluppo della nostra umanità.

È compito nuovo che si affaccia quando si decide di incontrare l’altro nella prospettiva anche di un matrimonio, o nel vissuto di un amore sponsale, o tra fidanzati.

Spesso immaginiamo l’incontro con l’altro come condivisione di beni, di idee. Ma questo non ancora lo spazio che rende possibile l’avvicinarsi dell’altro come l’altro. Non è una condivisione di uno spazio, questo da solo l’illusione di essere prossimo. 

L’apertura di una soglia per l’approccio all’altro è primariamente possibile  solo se siamo fedeli a noi stessi. Possiamo dire che senza la conoscenza e fedeltà a noi stessi, perdiamo la nostra identità e la perfezione dell’incontro. Per poter andare verso l’altro in un mondo che dovrà essere nuovo, devo conoscere lo spazio che già abito. Devo cioè capirmi, sapere cosa mi fa bene, essere felice di chi sono.

Andare poi verso l’altro implica l’allestimento di un fuori di noi, ma una soglia prevede una porta e dietro la porta una stanza.

Un modo per allestire lo spazio esterno è il silenzio. Il silenzio è in qualche modo la parola della soglia che permette di accogliere l’altro nella sua alterità.
Il silenzio apre alla vera comunicazione e al dialogo e non alla semplice trasmissione di informazione che è un pericolo dei nostri tempi. Comunicare non significa solo  parlare e scrivere, ed il silenzio ci insegna a comunicare, perché nel silenzio ascolto l’eco della mie parole, la risonanza delle parole dell’altro. 
La relazione tra due soggetti non puoi partire allora solo  da un senso comune condiviso, ma da un silenzio per lasciar esser l’altro: il silenzio di fatto è uno spazio  vergine per permettere l’incontro. È anche uno spazio per accogliere qualcuno nello spazio in noi stessi.

Per accogliere l’altro devo partire dalla stanza, cioè da chi sono io, e andare verso la costruzione dello spazio che implica anche momenti di silenzio.

Dare ospitalità all’altro non può inoltre ridursi a un atteggiamento generoso e paternalista, ma si tratta di lasciarsi fare e lasciarsi essere. Questa appare un’idea molto rischiosa perché sembra essere foriera di perdita di identità.
In realtà quando parlo di lasciarsi fare, intendo due movimenti: un cammino verso l’altro, che richiede di accettare e ricevere senza però rinunciare a noi stessi
Certo c’è un rischio, la messa in discussione e il cambiamento; ma non possiamo amarci senza rischiare, sapendo cioè che possiamo essere anche modificati da questa relazione.


E’ importante però varcare la soglia nei due sensi; se la soglia ci consente di uscire questa ci consente di ritornare in noi stessi. Rifugiarsi e raccogliersi è importante per chi si è esposto all’incontro con l’altro. Saremo modificati dopo l’incontro e allora rientrare in noi è una necessità per coltivare e preparare gli incontri futuri, senza perdersi.

Dobbiamo essere capaci di distinguere cosa risulta dall’incontro con un altro, che non è qualsiasi altro ma che deve rimanere unico.
Si tratta di preservare una verginità per accogliere lo sconosciuto, oltre ai tanti eventi, informazioni culturali che sono già intervenuti nella esistenza. È una verginità del respiro, del soffio che rende capaci di accogliere pur rimanendo fedeli al respiro.

In poche parole: incontrare l’altro senza dimenticare se stessi.

Come incontrare senza dimenticare noi stessi? Per fare questo siamo chiamati a un doppio ascolto: l’ascolto della parola che già abitiamo e la parola che ci indirizza l’altro.
Il nostro entrare in presenza uno all’altro non può aver luogo senza l’incrocio dei due ascolti che apre uno spazio interno ed esterno.

La prossimità si scopre allora con la elaborazione di un luogo comune che non distrugge il proprio mondo . Si realizza allora un mondo comune che è in divenire, e che si forma e modifica ad ogni incontro.
Si tratta allora di essere fedeli al passato e di costruire un futuro che non apparterà né all’uno né all’altro ma sarà frutto dell’incontro. Un mondo nuovo, come un figlio che incarna sia il padre e la madre: la relazione nuova incarnerà le differenze.

Ciò implica che tutta la nostra mente, corpo e cuore e non solo mente deve essere coinvolta.
Una disponibilità fisica e di cuore,  e non solo una realtà mentale. 
Laddove diamo ospitalità all’altro dobbiamo essere presente, non in modo ideale, frutto di comandamenti morali. La accoglienza deve rivolgersi a lui.
Il luogo da accogliere va allestito, e non si tratta di un livello materiale di bisogni.
Rispondere all’appello dell’altro circa i bisogni mostra certamente la nostra generosità e ci mette in causa, però solo a livello dell’avere e non ancora dell’essere. 

Certo ogni mutazione implica una specie di morte ed il rischio è più grande quando è in causa tutto l’essere e non solo l’avere. 
Ma senza questo l’incontro con l’altro rimane impossibile.





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